Senza scampo di Lea Melandri
Ci sono tanti modi non cruenti per uccidere una persona. Si può portarla alla disperazione, sbarrarle ogni via d’uscita da una vita infernale, metterla rovinosamente contro se stessa tanto da indurla alla decisione di “chiudere la sua esistenza col suicidio”. Nel suo commento su Calabria Ora, Piero Sansonetti si chiede –precisando che si tratta di una domanda non facile e di risposta non scontata- “se è giusto infischiarsene della condizione umana delle persone, per ottenere risultati sul piano della affermazione della giustizia contro la mafia”, “se c’è sostanza etica nello spingere una figlia ad accusare un padre non per reati commessi contro di lei”. Appartengono a questa zona d’ombra i passaggi più inquietanti della tragica morte di Maria Concetta. Innanzi tutto lo scarto evidente, quanto a lucidità, intelligenza di sé, desiderio di libertà e volontà di cambiamento, tra la lettera alla madre del maggio 2011 e la registrazione – quanto spontanea o indotta?- “lasciata in casa”, si suppone a suoi famigliari, pochi giorni prima del suicidio. Sono trascorsi solo tre mesi, ma segnati violentemente da quali e quante “torture” psicologiche, sentimenti contrastanti e condizionamenti intrecciati da parte di due massime autorità, come la famiglia e lo Stato? Se è impossibile valutare dall’esterno quanto profondo fosse “lo stato psico-depressivo” di Concetta, non altrettanto si può dire del quadro esistenziale che emerge impietoso dai “documenti” offerti all’opinione pubblica per evitare, come scrivono il padre e la madre, “equivoci” e “strumentalizzazioni”. Tra il primo scritto -la lettera alla madre- e i due documenti successivi -il racconto “viva voce” della donna sui passaggi essenziali della sua messa sotto protezione e la dichiarazione dei genitori a morte avvenuta-, la perdita di padronanza di sé, la resa a un potere maschile che sa usare le mani quanto il ricatto economico ed affettivo, e il silenzio complice di una madre, sono quasi palpabili. Con passione e lucidità, Concetta descrive il suo dolore di figlia che ha cercato e ancora cerca inutilmente il sostegno della donna che l’ha generata e che è più simile a lei per sorte, la delusione per aver inseguito “un po’ di libertà” in un matrimonio precoce rivelatosi un altro inferno, la preoccupazione di riservare ai suoi figli “gli spazi” e l’affetto che a lei sono mancati, la consapevolezza della solitudine a cui sarebbe andata incontro per aver gettato “vergogna” sulla famiglia, il desiderio di “capire come trovare la pace in se stessa”. Su gli uomini di casa, da cui ha deciso di prendere distanza, solo un accenno velato ma forte abbastanza per lasciare intendere le loro colpe. “Non lasciarli a loro”, dice dei figli, “non sono degni di loro, di nessuno”. Di quali colpe sta parlando? Sicuramente si riferisce ai maltrattamenti che ha subìto all’interno della famiglia, ma anche ai reati, veri o ritenuti tali, per cui ha deciso di denunciarli. Nelle due ricostruzioni successive, lo sguardo giudicante è ormai uno solo, quello della famiglia d’origine: incerta, quasi balbettante, la “viva voce” di Concetta, perentoria, ufficiale, composta quanto serve a riconquistare consenso pubblico, la dichiarazione del padre e della madre. La vicenda che ha interessato la giustizia scompare dietro un quadro in cui si danno esclusivamente condizioni personali e rapporti famigliari. L’inimicizia tra Stato e famiglia, se pesa ugualmente su ogni individuo, stretto tra poteri e forme diverse di controllo e dipendenza, per una donna diventa in molti casi la condizione senza scampo di chi non ha un luogo proprio né dall’una né dall’altra parte.
pubblicato su Gli altri del 2 settembre 2011
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