Senza scampo

di Lea Melandri




Ci sono tanti modi non cruenti per uccidere una persona. Si può portarla alla disperazione, sbarrarle ogni via d’uscita da una vita infernale, metterla rovinosamente contro se stessa tanto da indurla alla decisione di “chiudere la sua esistenza col suicidio”.
E’ questa espressione raggelante, nella sua formalità quasi notarile, che si legge nella “dichiarazione” dei genitori di Maria Concetta Cacciola rilasciata subito dopo la tragica morte della figlia, a far nascere dubbi, interrogativi, intorno a una vicenda che si presenta apparentemente chiara, corredata com’è di documenti e “spiegazioni” pubbliche da parte dei protagonisti stessi.
Quando a farsi collaboratrice di giustizia è una giovane donna che i genitori dichiarano di aver “assistito e mantenuto”, assieme ai suoi tre figli, “sin dalla nascita in condizione di massima agiatezza economica e soprattutto amorevole e affettiva”, e quando i presunti colpevoli sono i suoi famigliari più intimi, un padre e un fratello, è inevitabile che le ragioni “personali” finiscano per mettere in ombra o per cancellare le implicazioni che attengono alla sfera pubblica: la giustizia, la legge, lo Stato, l’etica collettiva.

Nel suo commento su Calabria Ora, Piero Sansonetti si chiede –precisando che si tratta di una domanda non facile e di risposta non scontata- “se è giusto infischiarsene della condizione umana delle persone, per ottenere risultati sul piano della affermazione della giustizia contro la mafia”, “se c’è sostanza etica nello spingere una figlia ad accusare un padre non per reati commessi contro di lei”.
In questo aspetto “cinico”, indifferente alle condizioni psicologiche di chi si ha di fronte, non c’è dubbio che la macchina dello Stato sconta la separazione millenaria dalla “persona”, dalle condizioni esistenziali profonde, spesso inconsapevoli, che stanno dietro le sue scelte, così come la mancanza di una cultura politica capace di vedere l’intreccio che annoda da sempre il rapporto di potere tra i sessi, all’interno della famiglia, e le forme più diverse di potere che attraversano la società e le istituzioni pubbliche.
Le eventuali forzature da parte di carabinieri e magistrati possono essere fatte oggetto di indagine e punite come meritano; molto più difficile è spostare l’attenzione sulla violenza, gli abusi di potere, gli inganni psicologici, le armi sottili della dipendenza affettiva e il peso della solitudine, che passano da sempre inosservati o ritenuti trascurabili nel chiuso delle case e delle famiglie.

Appartengono a questa zona d’ombra i passaggi più inquietanti della tragica morte di Maria Concetta. Innanzi tutto lo scarto evidente, quanto a lucidità, intelligenza di sé, desiderio di libertà e volontà di cambiamento, tra la lettera alla madre del maggio 2011 e la registrazione – quanto spontanea o indotta?- “lasciata in casa”, si suppone a suoi famigliari, pochi giorni prima del suicidio. Sono trascorsi solo tre mesi, ma segnati violentemente da quali e quante “torture” psicologiche, sentimenti contrastanti e condizionamenti intrecciati da parte di due massime autorità, come la famiglia e lo Stato? Se è impossibile valutare dall’esterno quanto profondo fosse “lo stato psico-depressivo” di Concetta, non altrettanto si può dire del quadro esistenziale che emerge impietoso dai “documenti” offerti all’opinione pubblica per evitare, come scrivono il padre e la madre, “equivoci” e “strumentalizzazioni”.

Tra il primo scritto -la lettera alla madre- e i due documenti successivi -il racconto “viva voce” della donna sui passaggi essenziali della sua messa sotto protezione e la dichiarazione dei genitori a morte avvenuta-, la perdita di padronanza di sé, la resa a un potere maschile che sa usare le mani quanto il ricatto economico ed affettivo, e il silenzio complice di una madre, sono quasi palpabili.

Con passione e lucidità, Concetta descrive il suo dolore di figlia che ha cercato e ancora cerca inutilmente il sostegno della donna che l’ha generata e che è più simile a lei per sorte, la delusione per aver inseguito “un po’ di libertà” in un matrimonio precoce rivelatosi un altro inferno, la preoccupazione di riservare ai suoi figli “gli spazi” e l’affetto che a lei sono mancati, la consapevolezza della solitudine a cui sarebbe andata incontro per aver gettato “vergogna” sulla famiglia, il desiderio di “capire come trovare la pace in se stessa”. Su gli uomini di casa, da cui ha deciso di prendere distanza, solo un accenno velato ma forte abbastanza per lasciare intendere le loro colpe. “Non lasciarli a loro”, dice dei figli, “non sono degni di loro, di nessuno”. Di quali colpe sta parlando? Sicuramente si riferisce ai maltrattamenti che ha subìto all’interno della famiglia, ma anche ai reati, veri o ritenuti tali, per cui ha deciso di denunciarli.

Nelle due ricostruzioni successive, lo sguardo giudicante è ormai uno solo, quello della famiglia d’origine: incerta, quasi balbettante, la “viva voce” di Concetta, perentoria, ufficiale, composta quanto serve a riconquistare consenso pubblico, la dichiarazione del padre e della madre. La vicenda che ha interessato la giustizia scompare dietro un quadro in cui si danno esclusivamente condizioni personali e rapporti famigliari.
Quasi con le stesse parole, il padre, la madre, la figlia riportata a casa, parlano di “disagio famigliare e patologico”, di “rabbia” contro genitori che “non facevano uscire”, “alzavano le mani”, impedivano amicizie, e a cui di conseguenza si voleva “farla pagare”, di forzature e invenzioni suggerite con l’inganno dalla polizia o peggio ancora, dette “per ingraziarsi le simpatie dei magistrati”. La sofferenza personale, la violenza subita, diventano “debolezza psicologica”, “scene di ordinaria e naturale gelosia”, la collaborazione con la giustizia solo un espediente “allo scopo di andare via di casa”. Quasi ossessivamente, come se dovesse convincere se stessa, Concetta ripete nella sua registrazione: “ero arrabbiata, volevo farla pagare, per rabbia dicevo cose che non c’erano”, “avevo problemi in famiglia”.
L’orizzonte intravisto di una “liberazione”, di una “vita migliore” e di “un po’ di pace” è ormai diventato anche per lei solo il subdolo inganno di uno Stato ostile alla famiglia, da cui difendere le giovani donne che possono essere “rapite e violentate psicologicamente”.
A testimonianza di un desiderio e di una volontà propria restano solo pensieri frammentari, quasi sfuggiti al controllo, e contraddizioni evidenti tra quello che viene descritto come uno stato di “serenità” e tranquillità ritrovata in famiglia, e il suicidio a pochi giorni di distanza. Dopo una breve sosta a Reggio Emilia, sulla macchina dei famigliari che dovrebbero riportarla a casa, benché dichiari di aver capito che il padre l’aveva “già perdonata” e che la paura di tornare in Calabria non riguardava lui ma il paese, Concetta decide “di sua spontanea volontà” di mettersi nuovamente sotto la protezione dei carabinieri e di andare con loro a Genova.

L’inimicizia tra Stato e famiglia, se pesa ugualmente su ogni individuo, stretto tra poteri e forme diverse di controllo e dipendenza, per una donna diventa in molti casi la condizione senza scampo di chi non ha un luogo proprio né dall’una né dall’altra parte.

 

pubblicato su Gli altri del 2 settembre 2011

 

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